La vera regalità non si eredita dalla madre regnante, e non necessita un investimento ufficiale. La nobiltà viene dalle proprie esperienze, è una corona che ci si disegna da soli come Basquiat, che si indossa da soli come Napoleone. Una nobiltà data dalla vita. Come Corto Maltese, come Wolverine che attraversa gli inferni di Claremont con il sigaro in bocca. Come Tempesta dea in Kenya sopravvissuta alla macerie. Troppo bene ce l’hanno fatto capire i fumetti.
Ed ora basta sciorinare nomi, veniamo a noi. Veniamo al cospetto di Nok.
Nok è re e uno del popolo. E’ un personaggio di fantasia, protagonista della graphic novel “Il Re di Bangkok”, edita da ADD Editore, ma è anche l’unione di una molteplicità di vite che gli autori del fumetto hanno incontrato.
Claudio Sopranzetti, Chiara Natalucci e Sara Fabbri hanno vissuto la materia narrata, uscendo da questo processo transformati.
Una molteplicità di livelli si incontrano in questo lavoro, che è contemporaneamente un oggetto sfogliabile fatto e finito, e anche il relitto di un’opera performativa, quasi una tela pregna di sangue e colore à la Hermann Nietzsche.
Che vuol dire il Re di Bangkok? In Tailandia il Re è una cosa seria; il più grave reato è parlarne male. Decenni di galera se solo ci si azzarda ad insultare il cane del re sui social (sarà per quel che si dice che i cani assomigliano ai propri padroni?) E quanto più sacra è questa figura per i tailandesi, tanto più questa devozione risulta incompresibile per un occidentale.
Come si fa ad amare un re distaccato, che non protegge il suo popolo? Che non batte un ciglio di fronte agli eccidi dei militari e ai brogli dei politici? Come si fa a considerare il re una figura celeste, quasi un faraone egiziano, in una società la cui originale spiritualità buddista sta venendo pian piano divorata dal consumismo?
Paradossi sudestasiatici che i tre autori descrivono criticamente, in una maniera impossibile da articolare con la stessa calma ferocia da un nativo tailandese. Eppure prima che si gridi all’appropriazione culturale, o al colonialismo prospettivo di Brunelleschi o Balfour, c’è da dire che la voce del terzetto si unisce a quella di molti artisti contemporanei del regno.
Da Manit Sriwanichpoomn a Vasan Sitthiket, gli artisti che sono usciti dalla madrepatria per periodi più o meno lunghi, sono tornati dal soggiorno all’esterno con occhi nuovi – soprattutto su questioni reali. Reali in tutti i sensi.
Un esempio è un’opera di video arte di Piyarat Piyapongwiwat, che si chiede sel suo ritorno a Chiang Mai dopo studi all’estero: “Ma perchè dobbiamo starcene tutti fermi un due tre stella quando suona l’inno nazionale?” E quali sono gli effetti di questa devozione senza riflessione su una popolazione che si sente schiacciata dale incombenze di una cattiva politica e di una cattiva economia? Ecco, Chiara, Sara e Claudio ce lo mostrano vignetta dopo vignetta.
Claudio Sopranzetti è un ricercatore di Oxford con l’occhiale antropologico e sociologico puntato sulla Tailandia. Per non parlare della sua curiosa specializzazione in mototaxi – il modus transportandi preferito dai bangkokkiani. Il fatto che dalla cattedra della prestigiosa università abbia deciso di abbracciare la graphic novel, è un segno dei tempi.
E’ stata la potenza narrativa e l’ampia diffusione del medium fumettistico che l’ha convinto. E questa volta senza doversi celare come un William Moulton Marston, professore ad Harvard e creatore di Wonder Woman, costretto dai tempi che correvano ad una “vergogna fumettistica.”
Fortunatamente i tempi dove in Accademia ti dicevano che il fumetto era Topolino sono finiti. Da raffinato osservatore dello spirito dei tempi, Claudio decide di liberare dall’inevitabile asetticità del linguaggio accademico la linfa vitale del popolo tailandese. Al di là del criterio scientifico, nelle sue decennali ricerche Claudio ha incontrato una folla di sentimenti, desideri, frustrazioni, speranze che devono essere raccontate.
E qui fa capolino Chiara Natalucci, traduttrice di base a Macerata e sua amica dai tempi dell’università. Chiara è la prima persona con cui Claudio si confronta alla ricerca di un’alternativa per narrare come la vita dell’individuo sia inestricabilmente legata alla storia recente del paese.
Prima di arrivare alla graphic novel, i due vagliano varie ipotesi, dal reportage fotografico al documentario. Poi sfogliando le pagine di Persepolis, tutto si allinea. “Awakened” – questo il titolo iniziale di un lavoro pensato in inglese – sarà un fumetto. Ora serve solo una disegnatrice.
La matita prescelta è quella di Sara Fabbri. Già art director di Linus, l’artista si lascia di buon grado coinvolgere in quello che inizialmente sembrerebbe un progetto di una quarantina di pagine, ma che poi nell’arco dei quattro anni di lavorazione arriva a sfiorare le 200. Personalità decisa, è Sara a far avvicinare Claudio e Chiara ai codici del linguaggio fumettistico. Ad esempio, mostra che non tutto va spiegato al lettore in forma scritta; se ben dosate, sono le suggestioni visive a raccontare gran parte della storia.
Ed infatti, senza mai risultare pesante, Il Re di Bangkok è un lavoro alchemico. E’ in grado di cucire insieme la macrostoria della Tailandia alla microstoria personale di Nok, che si trasferisce dalla campagna alla città di Bangkok pieno di speranze, e sperimenta sulla propria pelle le varie fasi di crescita e decrescita sociale, economica e politica del paese.
In maniera pratica, il trio si orizzonta creando timelines su dei fogli A4 dove nella parte superiore troviamo le tappe salienti della storia della Tailandia, e nella parte inferiore i coincidenti episodi della vita di Nok.
Non è una passeggiata; i tre lavorano a distanza e si incontrano di persona solo per alcune “chiuse”, dove il lavoro si intensifica a ritmi vertiginosi, nel segno di un processo di negoziazione tipico, tra l’altro, dei paesi del Sud Est Asiatico. Senza “spiegoni” e senza complicare o artificializzare il linguaggio dei personaggi dell’animo semplice, il lettore viene a conoscenza dei cambiamenti della Tailandia e ne assorbe gli umori tramite studiati cromatismi.
Soprattutto, vedi gli effetti della situazione sociale, culturale e politica sulla sul lavoro di Nok, il suo tenore di vita e le aspirazioni della sua famiglia. E per un attimo il lettore non può fare a meno di fermarsi e dare uno sguardo alla recente storia politica italiana, che per quanto assai meno scombussolata e sanguinosa di quella Tailandese, non ha mancato di influenzare profondamente i sogni, le capacità e le possibilità del singolo.
Tornando all’attualissimo concetto di appropriazione culturale, da parte sua, Sara si confronta per la prima volta in prima persona con il concetto di orientalismo. Comincia a porsi le tipiche domande dell’occidentale che racconta l’altro da sè.
Se lo scrittore deve preoccuparsi di non mantenere nel processo di scrittura un atteggiamento “coloniale” o “paternalista”, e deve evitare le categorie stereotipate, il disegnatore si pone invece nella condizione di dover caratterizzare una fisionomia per lei lontana, senza renderla caricaturale.
In fin dei conti, per entrambe le figure, il presupposto è un profondo spirito di osservazione, che cerca di liberarsi quando più possibile di preconcetti. Un recente libro di Laura Scarpa su Hugo Pratt enfatizza come il maestro studiasse con attenzione la fisiognomica delle varie etnie dei paesi da lui narrati, restituendo i tratti si enfatizzati dalla sintesi fumettistica, ma mai riprodotti con lo stampino.
E poi c’è la cecità, che caratterizza Nok. Elemento ispirato ad una persona reale che Claudio ha conosciuto a Bangkok, la mancanza di vista costituisce forse il più potente motore del libro.
Utilizzare il medium visivo per raccontare la mancanza di vista è un sfida non da poco. I tre la abbracciano camminando per le strade della tentacolare, inquinata e rumorosissima Bangkok, bendati. Come novelli Daredevil, esplorano la forza della propria vulnerabilità.
Per rappresentare le sensazioni Sara decide di usare la tecnica di enfatizzare con il colore alcuni dettagli nelle vignette, racchiudendoli in un rettangolo à la Bacon, e dando spazio alle onomatopee. Sul piano simbolico è un simbolo fortissimo; rappresentando la cecità del paese tailandese, nel momento in cui la libertà del suo popolo viene soppressa.
L’esperienza in prima persona dei tre autori in Tailandia, il continuo confronto di tre prospettive diverse, quello del ricercatore, della mediatrice e della creativa, hanno dato vita ad un lavoro che rivitalizza il graphic jounalism, e ci apre una dimensione empatica e geopolitica di grandissima profondità.
Ne emerge un’opera che racconta una Bangkok reale, lontana dai templi, i palazzi reali e dalla dubbia movida dei suoi quartieri più etilici, quella raccontata dai depliant turistici e dai film d’azione.
“Il Re di Bangkok” restituisce un ritratto del paese che non solo ci fa conoscere una zona del mondo dalle dinamiche spesso a noi misconosciute. E’ un lavoro che ci fa anche riflettere su noi stessi ed il nostro stesso paese. Sulle libertà che abbiamo guadagnato quello che stiamo perdendo. E sulla nostra vera regalità, quella data dalla vita.